religione

Il Sole 24 Ore, Ravasi: Medicare l’anima con la riflessione

Gianfranco Ravasi Il Sole 24 Ore
Pubblicato il 25-10-2020

Un’antologia di pensieri e citazioni che possono rivelarsi utili a combattere superficialità e banalità

Questa Introduzione vorrebbe essere una piccola guida all’uso - idealmente quotidiano, data la distribuzione nell’arco simbolico dei giorni di un anno – delle pagine che seguiranno. Una sorta, quindi, di mappa, della quale indichiamo i quattro punti cardinali, affidandoli ad altrettanti vocaboli. Il primo, che è alla radice dello stesso genere letterario del volume, è citazione: una frase o un breve paragrafo, desunto da un autore o da una tradizione sapienziale antica o moderna, è la sorgente, lo spunto, lo stimolo per una successiva riflessione. Il termine è giunto in italiano ovviamente dal latino citare, un verbo che ha come significato primario lo «scuotere», un valore conservato nel grappolo di parole derivate: incitare, eccitare, concitare, sollecitare, suscitare, resuscitare. Ma, già in latino, il verbo era stato trasferito in sede giuridica con il significato di «chiamare in giudizio», donde il nostro uso di «citare» e di «citazione» nell’ambito forense e burocratico. Forse c’era alla base proprio questa assonanza, quando papa Innocenzo XII nel 1694 adattò a sede dei tribunali dello Stato pontificio il palazzo di Montecitorio. In realtà il nome derivava dal medievale «Mons Acceptorius», un’altura artificiale sulla quale svettava l’obelisco di Psammetico II (VI secolo a.C.), qui collocato per volere dell’imperatore Augusto. Proprio per la sua funzione nei processi pubblici, il verbo acquistò anche il valore di «leggere ad alta voce», donde il nostro «recitare». Ebbene, tale intreccio di significati spiega anche le «citazioni» di questo libro. Esse aspirano a «scuotere » l’attenzione e la coscienza del lettore; ne vogliono talora mettere in crisi e giudicare i comportamenti, quasi «citandolo in giudizio»; e infine, soprattutto nel caso dei testi poetici, lo invitano a «recitarli», cioè a farli risuonare lentamente, quasi scandendoli parola per parola. Certo, la citazione è sempre un ritaglio, un’asportazione di un brandello da un corpo vivo che è l’insieme di un testo dotato di struttura e unità. Quindi, è importante l’appello implicito a risalire alle matrici integrali, quando si rimane catturati dal frammento. Passiamo, così, al secondo punto cardinale abbastanza scontato, espresso con il termine fondamentale parola. Se è vero che ogni libro è fatto di parole, in questo caso si vogliono esaltare alcune parole alonandole di luce. Anzi, esse stesse irradiano uno splendore di sapienza, si insinuano nelle grotte oscure dell’anima, «scuotono» il sonno della mente con i loro raggi abbaglianti. Spesso, ai nostri giorni queste parole necessarie hanno subìto un’eclisse, lasciando spazio al fiume fangoso degli insulti, dell’istintualità verbale, dell’oscenità, soprattutto lungo gli affollati viali dell’infosfera. Ora, è noto che «il grande codice» della cultura occidentale, come l’artista e poeta inglese William Blake definiva la Bibbia, si apre con una parola trascendente: «In principio ... Dio disse: Sia la luce! E la luce fu» (Genesi ­1,1.3). E il Nuovo Testamento fa eco a quell’inizio con il celebre prologo innico del Vangelo di Giovanni: «In principio era la Parola [Lógos] ... E la Parola carne divenne» (1­,1.14).  L’efficacia divina creatrice della parola è, per analogia, presente anche nella «comunicazione» alta, che - per stare all’etimologia di questo termine - è offrirsi reciprocamente un munus, un dono. Formidabile è l’affermazione dello scrittore bulgaro di lingua tedesca che incontreremo nelle nostre citazioni, Elias Canetti: «Se io fossi davvero uno scrittore, dovrei essere capace di impedire la guerra ... Alla situazione che ha reso poi la guerra davvero inevitabile si è arrivati per mezzo di parole, parole su parole usate a sproposito. Se così grande è il potere delle parole, perché esse non dovrebbero essere in grado di impedire la guerra?». Questa forza è inversamente proporzionale all’eccesso. Famoso è il motto latino multa paucis, «molte cose in poche parole», un detto nato nella classicità e transitato nel linguaggio ecclesiastico per approdare anche nella modernità.

 

Proprio per questa ragione, la citazione è essenziale e intuitiva, e il nostro volume può essere rubricato, come altri da noi precedentemente pubblicati, sotto il titolo di Breviario, un termine di genesi classica ma divenuto popolare nell’uso cattolico. Si rimanda, infatti, al libro della preghiera ufficiale ecclesiale ove, per ogni giorno, si condensano alcuni testi, soprattutto desunti dai Salmi biblici, da «recitare» quotidianamente. Essenzialità, sobrietà, brevità erano appunto le caratteristiche di queste orazioni rispetto al flusso magmatico delle pratiche devozionali. Anche gli spunti di riflessione che ora si stenderanno per un anno sono quasi minimi, leggibili nell’arco di pochi minuti. Ed è proprio il verbo leggere il terzo punto cardinale che desideriamo suggerire. Quante lamentele sono state lanciate contro il popolo italiano, così allergico alla lettura di libri! Già Leopardi nel suo Zibaldone, sotto la data 5 febbraio 1828, annotava: «Ormai si può dire in verità, massime in Italia, che son più di numero gli scrittori che i lettori giacché gran parte degli scrittori non legge e legge men che non iscrive». Gesù stesso, a quanto risulta dal Vangelo di Luca, praticava la lettura, come è attestato da un episodio accaduto nella modesta sinagoga del suo villaggio, Nazaret, durante il culto dello shabbat: «Si alzò a leggere il rotolo del profeta Isaia» (4,16-17). Il verbo usato per indicare la sua lettura è significativo: anaghinóskô, cioè un «conoscere» discorsivo e susseguente (aná, «lungo, tra»), un vocabolo che ricorre 32 volte nel Nuovo Testamento. Non bisogna, infatti, dimenticare che quella che il cristianesimo chiama graphê, «Scrittura» sacra, nella tradizione giudaica è miqra’, ossia la «Lettura» per eccellenza, la proclamazione pubblica, espressa con la stessa radice verbale che si ritroverà nel vocabolo arabo «Corano» con identico significato. Ora, è ben noto che il «libro» (in latino liber indicava la membrana tra legno e corteccia dell’albero usata per scrivere e, pur essendo geneticamente differente, è graficamente identico alla parola liber, «libero») non è solo opera dell’Autore, che certamente ne ha il primato. È anche frutto del Lettore, che ne ricrea le componenti, ne ricolma gli spazi bianchi dell’implicito lasciati dallo scrittore, ne fa esplodere la fecondità germinale. Il verbo greco légô, che sta alla sorgente etimologica del nostro «leggere», significa prima di tutto «raccogliere» e «scegliere », e diventa poi «dire, narrare ». È facile comprendere, allora, la complessità di questa azione: la lettura è una raccolta che seleziona semi, li fa crescere e li esprime in nuove forme, trovando luci per illuminare il cammino della vita del lettore. Ecco perché un libro senza lettori è morto; ecco perché il libro può diventare decisivo per il lettore. È ancora Proust a spiegarlo nel suo Il tempo ritrovato: «Ogni lettore, quando legge, legge se stesso. L’opera dello scrittore è una sorta di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in se stesso». Giungiamo, così, all’ultimo punto cardinale di questa guida alla lettura. Se è vero che i grandi libri servono a vivere in pienezza, nel caso delle citazioni che proporremo, si ha l’attuazione di un altro vocabolo piuttosto raro nell’uso e nella pratica ai nostri giorni, meditare. Ancora nello Zibaldone, agli inizi del settembre 1823, Leopardi annotava una curiosa etimologia: «meditare» deriva dal latino medeor, che significa «curare, medicare», per cui - concludeva - «il meditare una cosa è una continuazione del semplice averne o pigliarne cura». Ed effettivamente, se si consulta un dizionario etimologico, sotto la voce «meditare» si ha il rimando a «medico». Suggestivamente la radice indoeuropea med-, che è alla base di medeor, significa «pensare, riflettere» e anche «misurare», mentre si spiega - sempre nei dizionari - che meditor, «meditare», è «un verbo iterativo derivante da medeor». Detto in altri termini, la meditazione è pensiero e riflessione e quindi è una medicina dell’anima.

 

È per questo che, stando allo storico greco Ecateo di Abdera (IV-III secolo a.C.), sul frontone della biblioteca eretta dal faraone Ramesse II (XIII secolo a.C.) si leggeva un’iscrizione che, tradotta in greco, era psychês iatréion, ossia «clinica dell’anima». Le frasi e i brevi apologhi che segneranno ogni giorno dell’anno aspirano a creare, anche attraverso il commento, un’oasi di riflessione. Meditare per qualche minuto ogni giorno non è tempo perso, anzi, è immettere fermento nel nostro pensare e agire; è una vera e propria medicazione contro la superficialità e contro la banalità, il luogo comune, la reazione «di pancia». La meditazione apre nella nostra personalità tante feritoie, che permettono di introdurvi sensibilità morale, spiritualità, valori umani e l’anelito per la giustizia e la verità. Da Il Sole24Ore di Domenica 25 ottobre 2020

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